Un'opposizione insomma inspiegabilmente morbida, dolce, blanda, che ha trattato Berlusconi quasi fosse un comunissimo leader politico, e non invece il cancro della nostra già fragile democrazia; che non ha mai intaccato il suo illegale potere mediatico; che non ha mai fatto leva sulle sue innumerevoli grane giudiziarie, correndo anzi a tappare la bocca alle inevitabili voci fuori dal coro, tacciate finanche di "giustizialismo" ( quasi come se pretendere giustizia, fosse un abominio, un'offesa, e non un diritto).
Per quasi vent'anni la parola d'ordine è stata: "non demonizzare l'avversario". Laddove per "demonizzazione" si intende semplicemente "raccontare la verità". Quindi: vietato dire la verità. Vietato parlare dei rapporti con la mafia, delle tangenti, delle corruzioni giudiziarie, dei bilanci falsati, delle televisioni abusive. Perché altrimenti si avvelena il clima. Perché l'uomo con le sue passioni, e la sua fedina penale, sono cosa diversa e distinta dal politico e dal suo progetto. Perché se un pedofilo si candida e promette meno tasse e più lavoro, bisogna ascoltarlo, e discutere del suo progetto politico: non di quando stuprava bimbe e bimbi di sei anni.
Un modo inedito e inusuale di concepire il confronto politico, che per nostra fortuna non ebbe seguito ai tempi del fascismo. Quando le forze della Resistenza si guardarono bene dal "non demonizzare l'avversario", dal "non avvelenare il clima", e imbracciando i fucili ricacciarono con forza il demonio, dritto nell'inferno dal quale era sbucato.
Ciò ovviamente non significa che per combattere Berlusconi e il suo regime fosse necessaria una nuova guerra civile. Ma quantomeno che i leader del centrosinistra, e non solo i soli rarissimi giornalisti illuminati, dicessero la verità sul suo conto, senza paventare la falsa necessità di "non avvelenare il clima". Perché tenere fuori dalla campagna elettorale, sottacere al Paese, così come si è fatto, che il potere mediatico di uno dei candidati al governo dell'Italia è illegale; che il fondatore del suo partito è condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa; che una sua azienda (
A questo punto, delle due l'una: o alla base di tale atteggiamento c'è pura e semplice malafede ( complicità con l'avversario, timore di ritorsioni, ricatti); o al contrario pura e semplice buonafede. In entrambi i casi però le conclusioni a cui addivenire non cambiano. Perché una classe politica che agisce in malafede, o per 15 anni di fila ripete sempre gli stessi errori in buonafede, rimane comunque sia una classe politica inadeguata. E, di conseguenza, da sostituire.